“Certo che hanno proprio intenzione di usarle tutte, quelle dodici ore.” Sbuffò Luciphera, tirando annoiata un torsolo di mela agli ostaggi. Manola, la sorella di SuperFra, le lanciò uno sguardo di rimprovero. Gli altri due dormivano, come se l’essere legati su una vasca piena di acido e squali (per quanto neutralizzati, appunto, dall’acido) non avesse alcuna importanza. L’uomo, ogni tanto, mormorava nel sonno qualcosa che suonava come “Sparky”.
“Vedrai che arriveranno, piccina,” la rassicurò Luigi Uva, “non rischieranno.”
La supercattiva fece una smorfia e si avvicinò al suo socio. “Ma se non arrivano in tempo,” sussurrò, gettando agli ostaggi uno sguardo preoccupato da oltre la sua spalla, “poi li uccidiamo veramente?”
Lo stilista scosse i fogli che aveva in mano in un gesto stizzito “Certo che sì, vuoi perdere credibilità?” Sbottò. “È quello che vuoi?”
Luciphera non lo degnò di una risposta e si diresse verso Emiliano, seduto in un angolo che lottava contro il sonno. Quando la sentì avvicinarsi si irrigidì contro il muro, gli occhi grandi e allarmati.
“Allora?” Disse la supercattiva, cercando di darsi un tono autoritario. “Com’è la mia bambina?”
“Carica,” rispose Emiliano.
“E la porta?”
“Uhm, solida.”
“Bene.”
Seguì un lungo minuto di silenzio, in cui Luciphera cercò di pensare a come sembrare sicura di sé’ sentendo di non incutere abbastanza timore agli ostaggi. Infine, non riuscendo a decidersi, mollò un ceffone a Emiliano e gridò “non mi piace il tuo tono, assistente!”, prima di fare dietro front e tornare da Uva.
“Vai così, piccina,” sussurrò lo stilista quando Luciphera gli fu vicina, “stabilisci la tua autorità”. La supercattiva si chiese se in quella frase non ci fosse un che di sarcastico, ma non seppe darsi una risposta.