Capitolo 42 – Un ingresso difficile

Come previsto da SuperFra, erano passate più di tre ore, e per la precisione tre ore e quaranta minuti, quando il SuperTeam fermò il Monopattino davanti alla vecchia centrale nucleare. L’edificio abbandonato si ergeva spettrale sui tre supereroi, avvolgendoli nell’ombra ancora fredda delle undici del mattino. Restarono per qualche minuto in un’immobilità glaciale, interrotta solo da SuperFra, che ogni tanto alzava una mano per grattarsi i capelli sotto il casco.

“Vogliamo…entrare?” Disse finalmente SuperSam. Le colleghe gli risposero con un vago mormorio d’assenso, ma non si mossero.

“Tipo…adesso?” Le incitò lui. Lentamente, senza guardarsi negli occhi, i tre supereroi mossero i primi passi verso la pesante porta aperta che conduceva all’interno della centrale.

“Tutto pronto?” Stava ripetendo Luciphera per la quarta volta.

“Sì, sì, tutto a posto.” Disse in fretta Luigi Uva, afferrando per un braccio Emiliano e indicandogli un sacco della spazzatura che gli era sfuggito. “Porta tutto fuori, rovini la scenografia!” Gli sibilò, minaccioso. L’assistente ubbidì placidamente, rassegnato.

Luciphera si passò le mani sulla stoffa che le ricopriva i fianchi. “Come sto?” Disse con un gran sorriso.

“Favolosa,” le rispose lo stilista, aggiustando le piccole alucce demoniache che le aveva applicato sulle spalline. Un vero tocco di classe. “Stai solo attenta con i tacchi, ok?”

“Non mi muoverò molto, se va tutto bene.” La supercattiva fece un respiro profondo. L’ansia dei giorni precedenti era quasi sparita, e si scoprì eccitatissima all’idea di mettere in atto il suo piano. Tornò a sorridere.

“Emiliano, il telo!” Gridò all’improvviso Luigi Uva, “Si vede la vasca!”

L’assistente fece un profondo respiro e posò il pesante sacco della spazzatura, pieno dei resti dei loro pasti dei giorni precedenti, per sistemare un grande telo di velluto nero che copriva una vasca al centro della stanza. Quando lo mosse, un po’ dell’odore nauseabondo colpì le sue narici, e allontanò la testa, disgustato. Che idea stupida, quella vasca, rifletté, ma non sarebbe di certo stato lui a farlo notare alla supercattiva.

“Il macchinario funziona?” Chiese lo stilista. Emiliano annuì svogliatamente.

D’un tratto, il rumore di passi dall’altra stanza fece girare tutte e sei le teste verso l’ingresso. Luigi Uva strinse brevemente la mano guantata di Luciphera.

“Stanno arrivando!” Sussurrò, elettrizzato.

I tre supereroi camminavano lentamente in un corridoio che sembrava non finire mai.

“Non ha niente in mano,” sbottò SuperFra, con un tono che tradiva la sua agitazione, “guardate questo posto. Cammineremo fino in fondo al corridoio e poi scatterà una mega trappolona e faremo la fine dei topi. Io dico di and-”

“Ok!” Esclamò SuperJay e, prima che i colleghi potessero rendersene conto, stava già correndo verso la porta da cui erano entrati. SuperSam si lanciò all’inseguimento.

Nella stanza della vasca tutti tendevano le orecchie, in attesa. Luciphera poteva sentire i suoi stessi battiti scuoterle il petto, mentre le dita si riscaldavano all’interno dei guanti speciali. Pensò che lo stilista dovesse percepire il calore crescente, ma lui non le lasciò la mano.

All’improvviso i passi che si stavano avvicinando lentamente mutarono in una corsa, il cui suono si andava affievolendo. La supercattiva rivolse a Luigi Uva uno sguardo confuso.

“Ma…scappano?” Mormorò. “Ma…”

“Oh, accidenti,” imprecò lo stilista. “Emiliano! Valli a prendere! Tu intanto sali, piccina, su”, aggiunse, aiutando Luciphera a salire su un grande macchinario.

Emiliano, confuso, guardò i suoi carcerieri, prima di muovere alcuni passi incerti verso la porta.

“Perché scappano?” Stava dicendo Luciphera, alle sue spalle, “Mio Dio, sono imbarazzata per loro!”

“Jay!” Gridava SuperSam, agitando una mano davanti a sé nel tentativo di afferrare il mantello della collega.

SuperFra era rimasta ferma, e li osservava da lontano, involontariamente sfoggiando un sorriso amareggiato.

“Jay!” Le dita di SuperSam si strinsero sul mantello di SuperJay, che immediatamente cadde a terra.

“Non ha niente in mano,” si affrettò a dire quella, quasi rantolante, massaggiandosi il collo e cercando di rimettersi in piedi. “Torniamo a casa, vi va? Pollo per pranzo?”

SuperSam offrì alla collega una mano guantata e uno sguardo severo.

Quando la testa di Emiliano fece capolino dalla porta in fondo al corridoio, il giovane assistente si ritrovò davanti uno scenario un po’ più bizzarro di quanto si era aspettato. Una figura ammantata di bianco, con uno strano copricapo, gli dava le spalle e sembrava assorta nella contemplazione di altre due figure, più distanti, di cui una, un uomo piuttosto alto, con indosso una tuta arancione, dei guanti rosa e un mantello azzurro, sembrava impegnato in una lotta per rialzare una ragazza mora, caparbiamente distesa a terra. Anche la ragazza indossava un mantello, blu, e un costume simile a quello dell’uomo, ma azzurro e bianco, con quello che sembrava essere un paio di mutandine di pizzo nero sopra i pantaloni. Emiliano non riusciva a capire quello che i due si stavano dicendo, ma i toni e i movimenti suggerivano un litigio piuttosto acceso. Si schiarì la gola.

SuperFra si voltò di scatto quando sentì un rumore alle sue spalle. Dalla porta in fondo al corridoio spuntava la testa di un ragazzo non più di tre o quattro anni più vecchio di loro, che la guardava con uno sguardo a metà tra il confuso e lo stupito, che la supereroina ricambiò.

“Ragazzi?” Chiamò SuperFra, dopo qualche secondo di silenzio. I rumori della lotta cessarono, quando anche i colleghi notarono l’assistente in fondo al corridoio.

Emiliano aprì un po’ di più la porta, e fece un gesto come a volerli invitare dentro. SuperFra alzò un sopracciglio.

“Ah, sì?” Disse, “come no. Troppo facile così.”

“Ehm…” Il giovane assistente era piuttosto in imbarazzo. “Perché?”

“Vogliamo prove che non è una trappola,” disse seccamente SuperFra, “non entriamo così, alla cieca. Anche troppo che siamo arrivati qui.”

Emiliano aggrottò le sopracciglia e fece cenno di aspettare, poi si sporse nella stanza alle sue spalle per parlare con qualcuno che i supereroi non potevano vedere.

“Non vogliono entrare,” stava dicendo il giovane. “Lo so! Non è che potete farvi vedere voi? Ah…nemmeno lui? D’accordo, d’accordo.” L’assistente ricomparve. “Dice che se si fa vedere si rovina l’entrata in scena.”

I supereroi si scambiarono uno sguardo confuso. Le guance di Emiliano avvamparono. La situazione lo metteva a disagio.

“Ehm…bel posticino,” cominciò SuperJay, ancora a terra,notando il suo imbarazzo. “Mi piace come l’hai sistemato.”

Lo sguardo del ragazzo passò dalle ragnatele ai tubi gocciolanti alla polvere accumulatasi ovunque a SuperJay.

“Uhm…grazie.” Rispose, più confuso che mai.

Seguì un altro lungo silenzio, improvvisamente interrotto da uno scoppio di voci alle spalle di Emiliano, che si girò di scatto.

“Come? Ok, ok…scusate,” disse, rivolto ai supereroi, “dovreste entrare.”

“No.” Si intestardì SuperFra.

“Ehm, Fra, forse-”

“Ho detto no, Sam!”

Emiliano si sporse di nuovo nella stanza alle sue spalle per sentire meglio, poi parlò di nuovo.

“Dovreste entrare…per favore.”

SuperFra alzò un sopracciglio. “Hai detto per favore?”

L’assistente annuì. La supereroina cercò lo sguardo dei suoi colleghi. “Quale supercattivo al mondo dice-”

“Oh, al diavolo,” borbottò SuperSam, lasciando andare il braccio di SuperJay e marciando verso la porta. Questa, quando si fu allontanato, si strinse nelle spalle e fece altrettanto.

Alla fine, anche una riluttante SuperFra li seguì, sospirando.

“Ecco,” disse, una volta nella stanza, e si sarebbe lanciata in un rimprovero sull’ingenuità dei colleghi, se quello che aveva davanti non le avesse strozzato il respiro in gola.