“Cosa facciamo, cosa facciamo, cosa facciamo!” SuperJay cominciò ad agitare le mani, i gomiti stretti contro il corpo, tesa come una corda di violino. Se avesse aumentato ancora il passo avrebbe potuto camminare sulle pareti. “Cosa facciamo?”
Avevano portato il giornalista in cucina, e si trovava sdraiato su un fianco sul pavimento. SuperSam gli stava posando dolcemente un cuscino sotto la guancia destra, assalito dai sensi di colpa per come era andato il loro ultimo incontro, temporaneamente dimentico degli eventi che lo avevano fatto arrivare a quel punto, mentre SuperFra tamponava con delicatezza l’ustione sulla schiena, usando dei cubetti di ghiaccio avvolti in uno strofinaccio. All’inizio il reporter sembrava reagire al dolore, muovendosi un poco e lamentandosi piano, ma ora giaceva immobile sul pavimento. Almeno respirava ancora e, almeno così pareva, senza difficoltà.
“Cosa facciamo?” Ripeté SuperJay, per quella che avrebbe potuto essere la millesima volta.
“Non lo so, non lo so!” SuperFra era troppo agitata per pensare con chiarezza. “Lo sapevo io, dovevamo andarcene da subito, ma no, tu mi fai restare, disfai le mie valigie, mi nascondi le cose-”
“Ah, ora è colpa mia?” gridò SuperJay, fermandosi bruscamente. “È chiaro che quella ha rapito qualcuno ed è colpa mia?”
“Basta!” Intervenne SuperSam, prima che la collega potesse rispondere. “Non è colpa di nessuno! Tanto li avrebbe rapiti comunque.”
“Ma non vedete che è una trappola?” Disse un’esasperata SuperFra, “chi potrebbe aver rapito?”
“Biggi, per esempio!”, si infuriò SuperJay, “E Marta!”
“Marta era fuori,” la interruppe SuperSam, “l’ho vista prima”.
“Qualcuno della nostra famiglia, allora! Come mia madre-”
“-che vive in Costa Rica da più di due anni,” sibilò SuperFra.
“…o il fratello di Sam-”
“Che i miei si tengono stretto perché lui è ‘quello bravo’ “, sospirò SuperSam.
“Va bene, allora magari la tua intera famiglia! O tua sorella!”
SuperFra alzò gli occhi all’improvviso. “Mia sorella?”, disse piano. Parve riflettere per un momento, poi scosse energicamente la testa. “No,” decise, tornando a tamponare la ferita del reporter, “mia sorella non si farebbe mai prendere così.”
“Andiamo, Fra!” SuperJay stava quasi gridando ormai. “L’hai vista anche tu quel giorno, no? Sappiamo cosa sa fare!”
SuperFra deglutì e scosse di nuovo la testa. “Non faremo il suo gioco,” disse. “Se una supercattiva ci invita da qualche parte non è mai una buona idea accettare. Dovresti saperlo, visto tutte le ricerche che hai fatto sui fumetti.” Aggiunse, secca.
“Ammetto che non mi è capitato spesso di vedere Spiderman rifiutarsi di andare a salvare Mary-Jane, ma indovina perché? Perché la voleva salvare!”
“Non abbiamo prove che-”
“-non abbiamo prove nemmeno che non abbia nessuno, ma vogliamo rischiare?”
SuperFra rivolse uno sguardo implorante a SuperSam, che la ricambiò.
“Ha ragione, Fra,” disse lentamente il supereroe, scuotendo la testa. “Cioè, i miei vivono fuori Città…e anche mio fratello…ma chi ci dice che non li abbia presi lo stesso?”
“Sam…noi non abbiamo poteri utili!” gridò la collega, disperata. “Anche se avesse rapito tutte le nostre famiglie al completo, cosa facciamo una volta là? Le saliamo la minestra? Sono sicura che sarà infastidita fino alla morte!”
“Allora meglio stare a casa!” Disse SuperJay, sarcastica, “di certo avrà abbastanza cuore per risparmiare la vita ai tuoi genitori, no?”
“Dimenticavo che noi abbiamo l’apriscatole umano! Barattoli di tutto il mondo, tremate!” SuperSam fece appena in tempo a calcarle in testa il casco/scolapasta (che per fortuna aveva dimenticato in cucina qualche giorno prima) prima che l’intero cassetto delle posate la colpisse in testa.
SuperJay lanciò a SuperFra uno sguardo severo completamente in contrasto con il suo carattere.
“Mi fai schifo, Fra.” Disse, glaciale. La collega spalancò la bocca in una espressione di sconvolta incredulità.
“Come?” Sussurrò.
“Sei una codarda. Sei la più potente di tutti noi, e ti rifiuti di affrontare i cattivi anche se potrebbero avere la tua famiglia. Mi fai schifo.” Scandì SuperJay.
A SuperFra servì un attimo per riprendersi, prima di parlare. Le parole della collega l’avevano colpita come non aveva mai fatto prima.
“Non sono una codarda, Jay. Io non posso fare niente!”
“Puoi fare più di noi due messi insieme, eppure ti tiri indietro. Fai come vuoi, io vado, manda pure un biglietto di ringraziamento quando avrò salvato tua sorella. Sai dove abito.” Il tono di SuperJay era freddo, grave. Non le apparteneva. Lanciò un ultimo sguardo di ghiaccio alla collega prima di scomparire su per le scale.
“Dove stai andando?” le gridò dietro SuperFra.
“A cambiarmi,” le rispose una voce seccata dal piano di sopra, “e poi alla centrale. Venite con me o abbiatemi sulla coscienza insieme alle vostre famiglie.”
SuperSam diede un’ultima sistemata al cuscino del reporter e si alzò, attento ad evitare lo sguardo di SuperFra, per dirigersi al piano di sopra. Quando le passò accanto, la collega lo afferrò per un braccio.
“Si farà ammazzare”, mormorò, cercando gli occhi del supereroe. Questi, però, continuò a guardarsi i piedi e, per tutta risposta, si strinse nelle spalle. “Credi davvero che abbia ragione?”
“Non è questione di ragione, Fra. Che ci piaccia o no, siamo al centro di questa faccenda, di qualunque cosa si tratti. Io non penso di avere una scelta.”
SuperFra allentò la presa sul braccio del collega. “Ci vorranno almeno tre ore per arrivare là,” rifletté.
“Non abbiamo limite di tempo.” Gli occhi di SuperSam finalmente incontrarono quelli della supereroina. Erano grandi, spaventati, ma decisi. Tentò un sorriso.
“Ci faremo ammazzare,” disse SuperFra in un soffio.
“Ecco, ‘ci’. Questo è lo spirito.” Il supereroe abbracciò brevemente l’amica e si affrettò su per le scale.
“Non posso credere che ci stiamo cascando,” mormorò SuperFra tra sé e sé, seguendolo.