Capitolo 40 – Solo un avvertimento

Nonostante le sue minacce, SuperSam dubitava che Artemio Tondelli avesse parlato alla folla dell’innocenza del SuperTeam. Scostò le tendine della cucina e gettò uno sguardo a quello che ormai era un piccolo accampamento sul suo prato, bagnato dalla luce rosa dell’alba (ormai alzarsi alle 5:30 era diventato l’unico modo di potersi godere qualche ora senza litigi). Poche tende, ne contò cinque, ma non meno fastidiose. Bevve un sorso di caffè caldo e posò gli occhi su una tenda rosa shocking (apprezzava molto il colore) che si stava aprendo in quel momento. Una testa rosso fuoco, arruffata all’inverosimile, fece capolino sfoggiando un sorriso raggiante rivolto a nessuno in particolare. SuperSam rabbrividì all’accostamento di colori capelli-tenda.

Marta non lo vide. Stese un asciugamano sul prato bagnato di rugiada e si sedette a gambe incrociate addentando una mela, lo sguardo fisso sulla casa. Strano, pensò il supereroe, da come se la ricordava, Marta non era mai stata molto mattiniera. Nei tre anni che avevano passato alle medie insieme era arrivata in orario esattamente cinque volte: due per una gita, una per il suo compleanno, un’altra quando non vedeva l’ora di mostrare a tutti le sue scarpe nuove, e una di domenica. Ovviamente SuperSam non era lì in quel momento, ma girava voce che Marta si fosse alzata e preparata in fretta e furia e avesse corso fino a scuola, solo per scoprire che era chiusa. Si diceva che da quel momento, per ripicca, avesse fatto tardi di proposito, anche le rare volte in cui usciva di casa in tempo.

Il supereroe accennò un sorriso e passò in rassegna l’accampamento, grato che gli altri fanatici fossero ancora addormentati. Non aveva idea di che cosa volessero, di preciso, e ciò non gli dava pace. Guardò l’orologio: cinque minuti alle sei. L’ora di Alberto Tonelli, pensò con amarezza. Ma c’era ancora una speranza che non si presentasse, visto lo scontro del giorno prima. Cosa non avrebbe dato per poter passare un giorno intero senza quell’avvoltoio sul prato. In qualche modo riusciva ad essere più fastidioso di tutti gli altri messi insieme, con la sua moleskin e la stilografica, sempre a prendere appunti, sempre ad osservare tutto. Si allontanò dalla finestra per riporre la tazza nel lavandino, quando un grido lo fece trasalire. La tazza cadde sul pavimento, andando in frantumi, e rumori dal piano di sopra gli fecero capire che anche le colleghe si erano svegliate e si stavano alzando di scatto. Il grido veniva dal prato: Marta.

SuperSam, senza pensarci due volte, si precipitò giù per due rampe di scale fino alla porta d’ingresso, che aprì immediatamente, grato che SuperJay non l’avesse chiusa a chiave la sera prima (tanto nessuno avrebbe avuto il coraggio di entrare, vista la loro fama), solo per sentire un pesante corpo che gli si accasciava addosso. Colto di sorpresa, lottò per mantenere l’equilibrio e afferrò l’uomo per le spalle, cercando di rimetterlo in piedi, ma senza successo: era svenuto. Sull’uscio, i grandi occhi spaventati di Marta brillavano nella luce dell’alba.

“Aiutami, Marta!” la implorò SuperSam, sforzandosi di sorreggere l’uomo. Lei non si mosse. “Marta!”

Senza dire una parola, la ragazza si voltò di scatto e cominciò a correre. Appena in tempo, passi affrettati annunciarono l’ingresso nella stanza delle colleghe.

“Ma che…” Mormorò SuperJay, non appena SuperSam le fu visibile. SuperFra si precipitò sulla porta per chiuderla, avendo notato dei movimenti sul prato: anche i fan si erano svegliati.

“Ho sentito Marta gridare, e quando ho aperto la porta lui mi è caduto addosso! Aiutatemi a farlo sdraiare!”

SuperJay obbedì, ma stavolta fu SuperFra a farsi scappare un grido. SuperJay si fermò a metà strada.

“Cosa?” chiese, il panico nella sua voce, “cosa!”

La collega non rispose, ma alzò un dito per indicare la schiena dell’uomo accasciato tra le braccia di SuperSam. SuperJay aggirò il supereroe per guardare meglio, e lui si sporse da oltre la spalla dello svenuto.

Tra le scapole dell’uomo, uno squarcio nel cappotto e nella camicia rivelavano la forma di una mano, rossa e nera, carbonizzata sulla sua pelle. SuperSam lanciò un grido e per poco non lo fece cadere. Le colleghe si precipitarono ad aiutarlo, e insieme misero a terra il malcapitato.

“Piano,” sussurrò SuperFra, mettiamolo su un fianco…così…”

“Ma è Tondelli!” Realizzò con orrore SuperJay, quando il viso dell’uomo fu rivolto verso di loro. Un pugno invisibile strinse lo stomaco di SuperSam. Il giornalista aveva perso gli occhiali, e aveva un’espressione di dolore ancora impressa sul viso, ma era lui.

“Cosa gli hanno fatto?” Disse SuperFra in un soffio.

“Fuoco! È stata lei, la supercattiva!” Gridó SuperJay, alzandosi di scatto per camminare nervosamente per la stanza. La collega passò una mano premurosa sulla fronte del reporter e avvicinò l’orecchio alla sua bocca.

“Respira,” dichiarò, “è vivo.”

“Guarda…” Mormorò SuperSam, allungando una mano per prendere quello che sembrava un biglietto, fissato con lo scotch al petto del giornalista. SuperFra notò la sua espressione di crescente terrore mentre lo leggeva.

“Sam, cosa dice?” Il collega non rispose. “Che c’è?!” E, perdendo la pazienza, glielo strappò di mano.

Il biglietto, scritto con calligrafia sottile e imprecisa, recitava:

Li ho io.
Lui è solo un avvertimento.
Mi trovo alla vecchia centrale nucleare.
Venire da soli o la loro fine sarà molto peggiore.
Luciphera.